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Introduzione al postcolonialismo, tr. Miguel Mellino
(Roma: Meltemi editore, 2005)
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Introduzione al postcolonialismo: indice
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Mitologie bianche, tr. Antonio Perri e Mattia Bilardello
(Roma: Meltemi editore, 2007)
Le pagine che bruciano il passato, 2005
Intervista. A Fahrenheit Robert J.C. Young si discute sui temi del suo recente Introduzione al postcolonialismo (Meltemi). Interprete Eva Gilmore.
Fahrenheit, Radio 3, RAI Italia, 19-05-2005
Federico Rahola, Rolling Stone, 1-8-2005
Rolling Stone – 01/08/2005

Saggi post di FEDERICO RAHOLA

La parola non è molto attraente, occorre ammetterlo. Eppure il postcolonialismo ha fatto strage di cuori negli ambiti intellettuali liberal degli anni ’90. C’è stato un momento in cui nelle università english speaking sembrava che tutto dovesse confluire in questo scatolone: letteratura, teoria critica, etnografia, sociologia, storia, filosofia. E in parte è ancora così. Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto il prefisso: nelle declinazioni più intelligenti, post allude a un passato “tecnicamente” superato che non passa mai del tutto. All’osso, il postcolonialismo indica il persistere di enormi squilibri, della violenza e degli orrori che hanno accompagnato l’esperienza di dominazione coloniale. Che è impossibile parlare di razzismo senza rifarsi al suo momento fondativo, e cioè coloniale, quando la domanda era se gli abitanti delle colonie fossero umani e, trovata la risposta (sì, ma inferiori), si giustificava tutto perché restavano comunque un problema. E “How do you feel to be a problem?” è la domanda a cui Fanon, psichiatra martinicano, cerca di rispondere in “Pelle nera e maschere bianche”. Due implicazioni, quindi. La prima è che il confine coloniale, quello che tagliava in due il mondo tra colonie e imperi, sudditi e cittadini, oggi è dappertutto, a Nord e a Sud. La seconda è che per capire il presente globale non si può fare a meno di guardare al passato coloniale. In tutti i testi postcoloniali troverete questa particolare insistenza sul peso decisivo dell’esperienza coloniale. E in alcuni pure qualcosa di più, perché rileggendo così la trama globale è possibile ricavare un punto di vista – decentrato è la parola giusta – che dimostra come la storia moderna sia sempre stata parziale e come riscriverla sia gesto necessario e sovversivo. Insomma, si tratta di una trama parallela e taciuta, e vedere quanto pesa sul presente: guardare il mondo dall’otro lado, cercare i margini per sovvertire il centro. Mica facile. Molti testi postcoloniali finiscono per cadere nei due errori, opposti e simmetrici, di interiorizzare il centro o di esaltare i margini. Un libro per sfuggire a queste tentazioni: la breve Introduzione al postcolonialismo di Robert Young: più che un saggio, una serie di diapositive montate in successione che si aprono con alcune domande secche: siete mai stati in una situazione in cui eravate gli unici “del vostro colore”? Avete mai provato la sensazione di raccontavi con parole altrui, di guardavi con occhi di altri? Casomai voleste complicare il quadro, provate con altri due libri sempre recenti e sempre di Meltemi: La critica postcoloniale di Miguel Mellino, argentino de Roma, e Provincializing Europe dello storico indiano (anzi, bengalese) Dipesh Chakrabarty. E poi una raffica di romanzi, da “Beloved” di Tony Morrison al classico “L’uomo invisibile” di Ralph Ellison, da “I figli della mezzanotte” di Rushdie a Ismail Reed, Jamaica Kincaid, Hanif Kureishi. Storie dove presente e passato si complicano a vicenda: very postcolonial.

Sandro Mezzadra, Il Manifesto, 18-05-2005

l manifesto – 18/05/2005

Le faglie del ‘post’ di SANDRO MEZZADRA

Introduzione al postcolonialismo di Robert Young per Meltemi. Un libro che si può leggere come una guida ai paradossi, alle ambivalenze e ai conflitti del mondo che abitiamo.

“Siete mai stati l’unica persona del vostro colore o della vostra etnia all’interno di un grande gruppo o di un assembrarnento di persone?”. Comincia con questa domanda l’Introduzione al postcoloniolismo di Robert J.C. Young, uscita in questi giorni in traduzione italiana (Meltemi, pp.169, euro 17). Mi è difficile resistere a un ricordo personale: ho cominciato a leggere il libro di Young una mattina di autunno di due anni fa, mentre – unico «bianco» – aspettavo la metropolitana in un’affollata stazione di Crown Heights, a Brooklyn. Nel mio provincialismo, era più o meno la prima volta che mi trovavo nella situazione a cui faceva riferimento Young. Nelle settimane trascorse a New York, la sua domanda mi è risuonata a lungo in mente, rendendomi attento a cogliere particolari dello scenario metropolitano che altrimenti, forse, mi sarebbero sfuggiti. Il viaggio quotidiano verso Manhattan, con il progressivo «sbiancarsi» del treno, è divenuto la mia principale fonte di esperienza e di conoscenza su quella «linea del colore» che organizza lo spazio pubblico statunitense, sulla sua inflessibilità ma anche sui suoi paradossi: quando sul treno cominciavano a salire i brokers di Wall Street avevo l’impressione (o forse solo la speranza) che mi scambiassero per portoricano, e che dunque — assai più di quanto non mi sentissero prossimo al loro «colore» – mi associassero ai (pochi) «neri» con cui avevo cominciato il viaggio e che erano rimasti a bordo. Mentre quando, uscendo dall’upper west side, arrivavamo ad Harlem, tornavo a sentirmi irrimediabilmente «bianco». Mi pare in fondo una buona indicazione del modo in cui si può leggere il libro di Young: come una sorta di guida al mondo che abitiamo, ai suoi paradossi, alle sue ambivalenze (parola-chiave nel lessico dell’autore), alle tensioni e ai conflitti che lo caratterizzano. Si prenda per esempio lo splendido capitolo dedicato al rai: in poche pagine, Young racconta la storia di questo genere musicale, divenutoci familiare attraverso le canzoni di Cheb Khaled, rintraccia nel suo sviluppo una chiave per leggere la storia dell’Algeria dopo l’Indipendenza, scopre nelle sue melodie la memoria dei massacri coloniali e le disillusioni degli anni che seguirono l’epopea della guerra di liberazione. Ma individua anche nel carattere ibrido del rai le tracce di quello spazio transnazionale e transculturale al cui interno le lotte contro il colonialismo storicamente si svilupparono, in un rapporto di tensione con il nazionalismo che pure le caratterizzò, finendo per imprimere il proprio sigillo sui regimi politici che da quelle lotte nacquero. Sarebbe del resto illusorio (o, peggio, ideologico) limitarsi a fare apologia dell’ibridità del rai: basta uno sguardo alle strategie di marketing adottate per la sua promozione nel variegato panorama della world music, centrate sulla celebrazione della «libera espressione individuale» dei cantanti rai e sulla loro rivolta contro la «tradizione», per ritrovarvi «l’emblema di una narrazione che l’Occidente vuole da sempre sentire sul destino delle altre culture». Per vedervi specchiata la realtà dei rapporti di potere che regolano gli stessi scambi culturali nel tempo della globalizzazione capitalistica.

Mitologie bianche

Se si tiene conto della centralità che il riferimento ai processi di ibridazione culturale occupa all’interno degli studi postcoloniali contemporanei, ben si comprende qual è la posizione di Young di fronte a questo campo di stadi, di cui è del resto uno degli indiscussi protagonisti almeno a partire dalla pubblicazione nel 1990 di White Mytholgies. Writing History and the West (Routledge): il riconoscimento dei caratteri di realtà dei fenomeni descritti dalla critica postcoloniale non è mai disgiunto, nel suo lavoro, dal richiamo alla perdurante asperità dei rapporti di dominio e di sfruttamento, che costituisce un sano antidoto alle derive estetizzanti e apologetiche da cui non sono immuni altri esponenti di quegli studi. Ma c’è di più nella prospettiva di Young, come è particolarmente chiaro in un altro suo importante volume (Postcolonialism. An Historical Introduction, Blackwell, 2001), parlare di postcolonialismo ha senso soltanto se si sottolinea il nesso strettissimo che, dal punto di vista storico così come da quello concettuale, lo stringe alla complessa esperienza storica dell’anticolonialismo e alle eterogenee matrici teoriche al cui interno quella stessa esperienza è stata elaborata. Senza semplificare troppo il ragionamento di Young, potremmo dire che a suo giudizio le lotte anticoloniali sono maturate all’interno di uno spazio di contaminazioni e di transiti concettuali, profondamente segnato da una continua opera di traduzione di paradigmi «occidentali» (in primis, il marxismo) in contesti radicalmente diversi rispetto a quelli in cui essi erano stati originariamente formulati. Questo patrimonio storico e teorico non tollera atteggiamenti linearmente e ingenuamente apologetici: il nostro rapporto con esso non può che svilupparsi a partire dalla tragica ambivalenza della decolonizzazione e dallo scacco che i più innovativi movimenti anticoloniali e anti-imperialisti hanno subito. Recuperarlo criticamente, tuttavia, è a giudizio di Young il presupposto fondamentale perché il postcolonialismo possa essere valorizzato come «nome generico per denominare i saperi subalterni insorgenti che provengono direttamente dai dannati della terra»: come una delle bussole di un rinnovato pensiero critico «che agisce sul mondo per cercare di cambiare le categorie e i valori che orientano le nostre vite».

Doppia analisi

Corredata di un ricco apparato iconografico, di facile e piacevole lettura, l’Introduzione al postcoloniolismo di Robert Young è quindi anche un’eccellente (e autorevole) esemplificazione di quella tendenza alla politicizzazione e alla radicalizzazione di una parte della critica postcoloniale che negli ultimi anni si è andata chiaramente delineando. Nelle sue pagine, così, accanto a digressioni sugli scritti di Bhabha e di Gayatri Spivak si incontrano riferimenti alle lotte dei Sem terra in Brasile, ai movimenti contro le dighe nella Valle della Narmada e ai conflitti innescati dal femminismo in Tunisia. Da questo punto di vista, appare un’occasione particolarmente felice la contemporanea pubblicazione, sempre per i tipi della casa editrice Meltemi di un altro volume pensato come introduzione alle problematiche del postcolonialismo, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, postcolonialismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies di Miguel Mellino (pp. 215, euro 18.50). Diciamo subito che il libro di Mellino, studioso argentino da tempo residente in Italia, ha un taglio diverso da quello di Young, è cioè più attento alla ricostruzione delle molteplici matrici, teoriche e disciplinari, dalla cui «ibridazione» gli studi postcoloniali si sono venuti formando negli ultimi vent’anni all’interno delle accademie anglosassoni. In questo senso i due libri sono anzi complementari, e, presi insieme, costituiscono davvero la migliore introduzione alla teoria pastcoloniale oggi disponibile per il pubblico italiano. Anche Mellino, in ogni caso, è mosso nella sua ricostruzione da una preoccupazione essenzialmente politica: salvare il nucleo critico della teoria postcoloniale dalle derive spoliticizzanti prodotte dalle influenze postmoderniste e poststrutturaliste, e porre le condizioni per un nuovo dialogo tra postcolonialismo e marxismo. Particolarmente efficace risulta l’analisi di Mellino nel districare l’insieme di problemi, ancora una volta al tempo stesso teorici e politici, a cui fa riferimento il significato del prefisso “post” nel termine postcoloniale. E’ una questione su cui si è svolto un intenso dibattito all’inizio degli anni Novanta (non a caso dopo la prima guerra del Golfo) e che recentemente è tornata d’attualità nel contesto della guerra permanente al terrorismo. “Più che indicare una frattura o un distacco netto nei confronti del passato”, scrive Mellino, il “post” “simboleggia la persistenza della condizione coloniale nel mondo globale contemporaneo”. Aggiungerei: in una situazione in cui la pur evidente presenza di strategie e logiche a tutti gli effetti “neocoloniali” si inscrive tuttavia in un contesto profondamente mutato, in cui quelle strategie e quelle logiche, come mostrano in fondo le stesse drammatiche «ambivalenze» della situazione irachena, non riescono più a fare sistema. Mi spiego con un esempio: dopo la guerra di secessione, e dopo la breve stagione democratica che nella storia statunitense è nota come «Ricostruzione», gli assetti di potere negli Stati del Sud si riorganizzarono anche attraverso l’imposizione di logiche di dominazione a tutti gli effetti “neo-schiavistiche”. ll che da una parte non toglie che la condizione in quegli Stati fosse “post-scbiavistica”, mentre dall’altra vieta ogni uso apologetico di questa nozione.

Trasformazione

I libri di Young e Mellino costituiscono contributi assai importanti al dibattito sul postcolonialismo, che anche in Italia si sta finalmente avviando. E non fatico a dichiarare la mia prossimità alle intenzioni politiche che motivano i due lavori. Su un punto, tuttavia, tendo ad avere un’impostazione in qualche misura divergente, o forse semplicemente una diversità di toni e di accenti la politicizzazione e la radicalizzazione della critica postcoloniale che Young e Mellino propongono sembrano puntare essenzialmente sulla denuncia della persistente realtà di duri rapporti di dominio e sfruttamento, dei condizionamenti che le strutture “oggettive” (termine che ricorre spesso in particolare nel libro di Mellino) esercitano sulla “libertà” dei soggetti. Si tratta di una “mossa” comprensibile, tenendo conto sia degli sviluppi teorici degli studi coloniali (che in effetti sembrano aver spesso sottovalutato l’analisi del potere) sia del cupo clima di guerra di questo inizio millennio. A me pare che, pur assunta la validità di questi rilievi critici, sarebbe opportuno non perdere di vista il contributo che gli studi postcoloniali possono dare alla costruzione di una genealogia e di una fenomenologia dei soggetti su cui una teoria della trasformazione – diciamolo in termini enfatici: una teoria della liberazione – può fare perno nel nastro presente globale. Per dirla con una battuta se è auspicabile che gli studi postcoloniali si aprano a un confronto, a una contaminazione, con la tradizione marxista, è altrettanto auspicabile che quest’ultima, soprattutto nella sua veste ortodossa e tradizionale, si lasci attraversare e modificare da alcune delle provocazioni che gli studi postcoloniali sono venuti accumulando negli ultimi anni.

Paolo Capuzzo, Storicamente, 2003
Il modo in cui Robert Young, già autore di Postcolonialism: an historical introduction (Blackwell, 2001), introduce il lettore all’universo degli studi postcoloniali è davvero efficace. Young evita ogni sistematizzazione, fornendo invece molteplici suggestioni e proponendo intrecci, talvolta sorprendenti, tra lotte politiche, saperi e culture nati nell’opposizione al dominio coloniale e che si proiettano nell’odierno mondo globalizzato.

La politica postcoloniale, e i saperi che la ispirano, è normalmente radicata in un luogo specifico, ma si è elaborata nello scontro con l’imperialismo europeo o americano, cosa che la colloca in un orizzonte globale e universale che rende possibile la condivisione di un comune destino subalterno. Non a caso Young inizia il suo percorso dalla fondamentale esperienza dell’Harlem Renaissance degli anni ’20, quando alcuni intellettuali africani e della diaspora nera danno vita ad esperienze di traduzione culturale che giocheranno un ruolo importante nelle lotte per l’emancipazione della popolazione nera nel ventesimo secolo, in America, in Africa e in Europa (su questi aspetti cfr. il volume di P. Gillroy. The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza , Roma, Meltemi, 2003). Ma non tutti i movimenti postcoloniali hanno origine da un’intelaiatura transnazionale. Il movimento brasiliano dei Sem Terra , che riunisce i lavoratori rurali privi di terra, nasce da un’esperienza condivisa da molte popolazioni rurali di altre parti del mondo: l’appropriazione coloniale delle terre nei monopoli fondiari e il dominio del capitale finanziario nei processi di globalizzazione che hanno investito l’agricoltura. In questo caso, un movimento radicato in una specifica esperienza locale ha elaborato obiettivi e strumenti di lotta condivisi da milioni di altri lavoratori rurali del mondo. Questa centralità del mondo rurale distingue i movimenti postcoloniali dal radicalismo occidentale, che ha avuto nelle città e nelle fabbriche il proprio punto di gravitazione, ed ha espresso intellettuali e leader politici di prima importanza, come Mao, Fanon, Guevara, Marcos. L’assenza di terra ha significato per milioni di donne e uomini lo spostamento forzato dalle campagne alle città, ha reso migrazioni e nomadismo una condizione cronica dell’esistenza di masse di persone. Questi processi sociali rendono particolarmente debole l’attrezzatura concettuale e politica di origine europea con cui si sono riorganizzati gli spazi coloniali dopo il tramonto degli imperi che si rivela spesso del tutto inadeguata a costruire processi di democratizzazione e di estensione dei diritti di cittadinanza.

La condizione postcoloniale si comunica, si indaga e viene esperita attraverso molteplici forme culturali. Young porta il caso della musica rai che dal Maghreb si è diffusa tra le comunità immigrate in Spagna e in Francia. Si tratta di una musica ibrida che combina elementi shikhs con suoni elettrici tipici del rock occidentale e testimonia le tensioni culturali di una società in rapida trasformazione. Non mira alla ricostruzione di una nuova identità culturale, ma rappresenta ed esprime la scena di soggetti coinvolti in trasformazioni nelle quali agiscono molteplici forze, quali la discriminazione etnica e sociale, la volontà di eversione delle strutture rigide di una società patriarcale, la resistenza verso la colonizzazione commerciale dell’occidente, della quale tuttavia si reinterpretano materiali e simboli. L’ibridazione culturale e artistica è un ottimo strumento di espressione e analisi delle tensioni del mondo postcoloniale, in essa si vedono all’opera forze molteplici che agiscono in situazioni specifiche. Il discorso postcoloniale perde insomma l’aura estetizzante di alcune retoriche del multiculturalismo e mostra invece tracce più dure e spigolose, soggettività che manifestano la specificità delle proprie posizioni, resistenze ai dispositivi di oppressione, siano essi coloniali, statali, commerciali, religiosi o patriarcali.

Quello del dominio patriarcale è un aspetto centrale del discorso postcoloniale. Le lotte di emancipazione dal dominio coloniale sono state infatti declinate al maschile, i movimenti anticoloniali hanno spesso acquisito gli strumenti retorici e istituzionali dei nazionalismi europei con il loro correlato dell’uniformazione culturale. Il femminismo postcoloniale è un territorio centrale della critica postmoderna proprio perché ha dovuto operare attraverso la critica della riproduzione dei rapporti di dominio di genere all’interno dei movimenti di emancipazione anticoloniale. I movimenti femministi tuttavia non hanno operato soltanto sul terreno dello specifico ruolo della donna nelle loro società, ma hanno portato alla ribalta questioni di valenza universale, nell’ambito dell’ambiente e nella lotta contro la mercificazione delle risorse naturali. In particolare in India questi movimenti hanno ottenuto i primi successi e si sono posti all’avanguardia nella riconsiderazione del rapporto tra risorse naturali, ambiente, economia e società, trovando una valida interprete globale delle loro lotte in Vandana Shiva. Il volume di Young suggerisce percorsi, modalità di indagine, temi che animano il dibattito postcoloniale in modo tale da trasmetterne la natura di vivo confronto tra saperi ed esperienze politiche. Il testo, ora tradotto in italiano dall’editore Meltemi, si chiude interrogandosi sul termine «traduzione», rendendo omaggio all’opera fondamentale del medico antillano Frantz Fanon, che nella sua biografia di psichiatra, intellettuale, militante politico, ha testimoniato un’acuta consapevolezza della centralità della traduzione culturale nel progetto di subordinazione coloniale e della necessità di una contro-traduzione subalterna che, anche oltre la conquista della libertà politica, sia capace di restituire dignità di soggetti ai «dannati della terra».

Germinazioni postcoloniali: da Bandung a L’Avana,
Derive approdi ‘Movimenti postcoloniali’ 23 (2003), 37-43
Interpretare l’Occidente: una breve storia in tre atte,
in Quale Occidente, Occidente perché, a cura di Tiziano Bonazzi
(Soveria Mannelli: Rubbettino editore, 2005), 41-60
‘A Poetics of Radical Cultural Mutation’, Preface to Frantz Fanon, Scritti politici. L’anno
V della rivoluzione algerina. Vol. 2 (Roma: Derive approdi, 2007)